domenica 5 dicembre 2010

La Spezia Avvelenata

Il Manifesto, 21 novembre 2010
Andrea Palladino

Dopo 14 anni si avvicina alla sentenza il processo per la devastazione della collina di Pitelli, sopra il golfo di La Spezia. Una zona grande quattro volte Porto Marghera, per anni sommersa di ogni genere di rifiuti industriali

LA SPEZIA. In quattordici anni il mondo è cambiato. Tre guerre, l'11 settembre, due governi Berlusconi, Prodi, D'Alema e ancora Prodi. Quattordici anni è la durata del processo per la devastazione di una collina sul Golfo di La Spezia, Pitelli, forse la più grande discarica industriale italiana. Un tempo che serve l'impunità di fatto assoluta per il traffico dei rifiuti pericolosi in Italia, che la Cia stimava in 80 milioni di tonnellate negli anni '90 e che oggi quasi nessuno conta più. Ovvero quella sorta di impunità che ha riguardato gran parte delle inchieste per le rotte dei veleni dell'Italia degli ultimi decenni. Archiviati i processi per la nave Rosso spiaggiata ad Amantea, archiviati i processi per le navi a perdere, senza colpevoli e, soprattutto, senza mandanti gli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in un agguato mentre seguivano le tracce dei traffici di rifiuti verso la Somalia. Prescritto il processo contro i responsabili dei viaggi delle navi dei veleni degli anni '80, quando l'Italia esportava tonnellate di scorie verso l'Africa e il Sud America. E ora il processo di Pitelli, vicino alla sentenza di primo grado dopo più di un decennio di udienze e prossimo alla prescrizione.

Nell'auletta della sezione penale di La Spezia sono passati quasi una trentina di imputati, decine di avvocati, almeno due generazioni di magistrati. E la storia di una città, simbolica e volutamente dimenticata.

Il sistema Duvia

Nell'ultima udienza dedicata alla discussione delle parti civili l'avvocato Roberto Lamma, per Legambiente, ha ricostruito pezzo dopo pezzo il sistema di Orazio Duvia, il dominus di Pitelli: «C'è una strategia di fondo in questa storia che si basa sull'opacità del sistema di gestione dei rifiuti. Una strategia del fatto compiuto». Ed è questa la chiave che può spiegare perché ancora oggi la gestione delle scorie industriali e perfino della comune monnezza è un'eterna emergenza e il miglior business italiano. Era l'agosto del 1976 quando Orazio Duvia chiese in sostanza di poter sistemare la collina di Pitelli - che per il piano regolatore era interamente destinata a verde, con un valore paesaggistico vincolante - buttando qualche rifiuto inerte. Qualche calcinaccio, un po' di sabbia, tutta roba innocua, giurava. «Poi va oltre - ha raccontato Lamma - e arriva il fatto compiuto». A Pitelli scaricano camion di rifiuti di ogni genere, mentre il Comune di La Spezia si preparava ad accettare quel fatto compiuto, architrave del sistema Duvia. Il principio che andrà avanti fino al 1996 sarà sempre lo stesso: prima vengono sversati i rifiuti, poi Comune e Provincia sanano il tutto, con autorizzazioni ex post.

Il risultato del sistema Duvia è ora quell'enorme area contaminata che sovrasta il golfo dei poeti. «Una zona grande come quattro Porto Marghera messe insieme - sottolinea l'avvocato di Legambiente - ovvero il secondo sito d'interesse nazionale dopo l'Acna di Cengio». Una devastazione che forse non ha eguali nella storia italiana e che ora sarà impossibile risanare.

Un'incredibile coincidenza

Gli anni '80 e i primi anni '90 sono stati i peggiori. Il traffico dei camion carichi di scorie industriali aumentava mese dopo mese, riempiendo quattro crateri. La prima buca, la più antica, che non ha mai avuto un isolamento dal terreno e dalle falde acquifere venne coperta con altri tre invasi, messi uno sopra l'altro, come in una torre devastante per l'ambiente del golfo di La Spezia. Oggi è impossibile andare a vedere cosa è nascosto in quella prima fossa e riuscire a risanare è un'impresa senza nessuna possibilità di successo. Le conseguenze colpiranno intere generazioni, per decenni.

Alla fine del 1984 il pretore di La Spezia Attinà firmò quello che fu l'unico sequestro - fino al 1996, data della chiusura della discarica - dell'enorme invaso di Pitelli. Oggi l'anziano magistrato ricorda ancora quegli anni. «C'erano degli evidenti abusi e per me fu naturale ordinarne la chiusura», spiega. «Dopo poco passai al giudicante - ricorda - e un altro magistrato dispose la riapertura». Salta così agli occhi una incredibile coincidenza, temporale ma significativa. La chiusura momentanea della discarica di Pitelli - dal 1984 al 1986 - coincide chirurgicamente con l'epoca dei viaggi delle navi dei veleni, che iniziarono a caricare i rifiuti tossici dell'industria del nord Italia sulla banchina del porto di Marina di Carrara, distante pochi chilometri da La Spezia. Coincidenze? Forse, ma sembra evidente che le rotte dei veleni rispondessero ad un'unica regia, rimasta ancora oggi oscura.

Il sistema di corruzione

Non è possibile capire il caso Pitelli senza guardare quella sorta di libro mastro delle tangenti trovato negli uffici di Orazio Duvia durante le perquisizioni ordinate dal Pm di Asti Luciano Tarditi nel 1996. C'erano politici, funzionari pubblici, militari, decine di persone pagate dal re delle scorie di Pitelli. «Tutti reati oggi prescritti - spiega l'avvocato Roberto Lamma - ma necessari per capire storicamente quello che è accaduto». Ed è significativo l'episodio che Roberto Lamma ha ricordato nella sua ricostruzione dei fatti: «Questo foglio battuto a macchina è il primo esposto che presentammo come Legambiente nel 1988», spiega al collegio mostrando le pagine ormai ingiallite, simili alle antiche veline usate dai dattilografi. Un esposto dettagliato, minuzioso che avrebbe potuto fermare la distruzione della collina di Pitelli forse al momento giusto. Peccato, però, che quel fascicolo sparì. «Quando iniziammo l'inchiesta - ricorda Benito Castiglia, oggi comandante del Corpo forestale dello stato di La Spezia - la prima cosa che facemmo fu di verificare tutti i procedimenti a carico del gruppo di Orazio Duvia». Nel registro c'erano le tracce dell'esposto del 1988, ma tutte le carte erano sparite dai locali del Tribunale. Una minima parte del fascicolo venne ritrovato a casa di uno degli arrestati, ma non fu possibile ricostruire le eventuali complicità all'interno del palazzo di Giustizia. L'unica imputazione non prescritta è la più grave, il disastro ambientale doloso. Arrivare alla condanna è fondamentale per, almeno, stabilire una verità storica, per chiudere con dignità questa pagina terribile della storia della città di La Spezia. Ma soprattutto dovrà servire per rompere la lunga catena dell'impunità, quella sorta di licenza ad inquinare che ancora oggi è la principale causa della devastazione ambientale in Italia.

Pensando al bene sociale. I ricordi di chi ha lavorato nella struttura della ex Colonia Olivetti

La Nazione, 16 novembre
Roberto Mazza, professore di Psicologia sociale e di Servizio sociale all’Università degli Studi di Pisa



Nel 1980 lo stato della Colonia Olivetti (ex Gil) era ancora in condizioni perfette. Ogni anno alcuni operai e giardinieri provvedevano a mantenerla con ordinarie manutenzioni, controlli e piccoli restauri, pitturazioni, sistemazioni infissi, giardinaggio e potature della pineta. Le varie maestranze assicuravano alla struttura il dovuto decoro e la sicurezza necessaria per poter ospitare ogni anno centinaia di figli di operai e di impiegati (età compresa tra i 6 e gli 11 anni), che raggiungevano Marinella da Ivrea. Da giugno a settembre la colonia si popolava, come un vecchio e prestigioso albergo della riviera, con centinaia di piccoli ospiti, venti educatori, direttori, economi, magazzinieri, camerieri, inservienti, perfino uno psicoanalista che di tanto in tanto giungeva da Firenze per supervisionare i gruppi di operatori. La funzione psico-socio-pedagogica (ma anche di prevenzione sanitaria) della colonia rispondeva a quella filosofia sociale cara ad Adriano Olivetti di voler garantire ai figli dei dipendenti (anche a chi non avrebbe potuto permetterselo) vacanze salutari, socializzazione, gioco, educazione, investendo una parte dei profitti dell’azienda in servizi sociali. In quegli anni ero tra i tanti giovani “monitori” selezionati ed addestrati da Olivetti nei centri Cemea, prestigiose scuole di formazione di gruppo sorte in Francia durante la resistenza, e prosecutori di una grande tradizione di esperienze di approccio democratico e partecipativo, secondo i principi di educazione attiva e col contributo dei modelli psicoanalitici applicati alla pedagogia. Per conto di Olivetti, Lia e Cesare Godano gestivano a Ponzano Magra, in una bella villa liberty (ora circondata dagli obrobri delle giunte palazzinare), uno dei centri di formazione residenziale in questa prospettiva.

La colonia offriva quindi lavoro a circa venti educatori, di cui 4 maschi e 16 femmine. I rapporti “affettivi” tra gli educatori erano vietati da norme implicite, ma severamente tramandate. Nessuno trasgrediva, almeno dentro la struttura. Come dovrebbe accadere in ogni “comunità” rispettabile, regole e rigore erano essenziali per lo svolgimento al meglio delle attività per cui eravamo destinati, e per il buon funzionamento dei gruppi. Vitto e alloggio erano straordinari. Gli stipendi ottimi. Con il primo mi pagai un mese di soggiorno-studio a Londra.

Ogni sera la severa direttrice – messi a letto i bambini - ci accudiva con sorbetti, gelati e frutta, ricompensandoci delle fatiche diurne. Le ultime ore della serata erano passate in giardino di fronte al mare o nella terrazza fantastica fronte mare, che il regime già destinava all’elioterapia. Si trattava di una struttura già estremamente funzionale, con pochissime barriere architettoniche, grandi saloni ben divisi e servizi accessibili. Il rapporto colonia-spiaggia-pineta era perfetto. Dal giardino si accede infatti direttamente alla spiaggia. Lato monti invece la pineta assicurava ai bambini ore di gioco tranquille e fresche nelle ore pomeridiane. Ci si può solo immaginare cosa fosse Marinella prima dei palazotti a mare, e prima ancora che costruissero gli edifici che separano la tenuta dalla pineta, e prima che venisse pensata “Luni mare”. I deboli, anche se plausibili motivi, per cui i fossati di Sarzana vennero riempiti di palazzotti, qui a Marinella non trovano alcuna sensata giustificazione. Le poesie di Corrado Martinetti e qualche immagine d’epoca possono farci capire la portata del disastro.

Curiosamente Gil, nata nel ventennio per assicurare il benessere delle generazioni future ma anche la cura e la prevenzione del rachitismo diffuso negli anni 30, e assicurare a molte famiglie sollievo e cure (anche alimentari) altrimenti impensabili, proseguiva con l’esperienza di Olivetti, ripulita degli elementi ideologici del Littorio e ridefinita nei termini di una esperienza innovativa da un punto di vista psicopedagogico, che includeva peraltro anche consulenza sanitaria, dietologica e prevenzione odontoiatrica. L’attenzione e l’approccio rivoluzionario di Adriano Olivetti ai servizi sociali è ancora oggi argomento di convegni e monografie. La lungimiranza ed avanguardia del Centro Studi di Ivrea è assai nota, e già dal dopoguerra, si annoveravano tra i consulenti giovani studiosi come Francesco Alberoni e Franco Ferrarotti, psicoanalisti del calibro di Cesare Musatti, pedagogisti e giuslavoristi di fama internazionale. Anche la colonia di marinella era un esemplare di questo modello ideale di gestione aziendale, democratica, partecipata, innovativa.



Ma la full-immersion di quei mesi estivi passati a soli vent’anni, 24 ore su 24 in colonia, scandita da lavoro, riposo, recite, responsabilità per i bambini, sieste pomeridiane, bagni, serate in terrazza, profumi, silenzi, canti di gruppo, paesaggi, aquiloni, tramonti, evoca inevitabilmente, insieme alle molte emozioni, alcune importanti riflessioni sugli usi, abusi e trascuratezze dei beni pubblici , i nostri beni comuni importanti e belli, come questo. La scarsa considerazione ed attenzione al loro mantenimento e cura svela disattenzione e nessun rispetto per i beni culturali da parte delle amministrazioni di oggi, che si spinge in taluni casi al disprezzo della nostra storia (Salvatore Settis ci ha spiegato come durante il ventennio ci fosse maggior sensibilità alla tutela dei beni culturali e paesaggistici di quanta ve ne sia oggi). Ma anche l’incapacità di percepire o di inventare modi diversi per produrre cultura e forse anche lavoro, attraverso nuove forme d’uso di tali beni e differenti approcci turistici ai nostri luoghi.

Il degrado della struttura, avviato dagli anni 80 ad oggi (e per cui ci stiamo mobilitando), se ancora protratto porterebbe inevitabilmente a definirne lo stato di abbandono e di definitiva irrecuperabilità di questa opera, offrendo il solito interessante boccone ai costruttori sempre attenti verso “aree di prestigio degradate” ed alle amministrazioni comunali e regionali con le casse esangui, ed in cerca di nuove entrate.

Ma il mio stupore è suscitato sempre più spesso dai comportamenti degli amministratori locali e dalla loro attenzione quasi ossessiva ai nuovi piani edificatori, alle varianti, alle licenze facili, ai centri commerciali; viceversa una totale mancanza di attenzione al recupero ed al riordino degli spazi pubblici, al disinteresse per possibili aree archeologiche, alla manutenzione dei beni culturali, di cui anche i paesaggi sono parte consistente, ma considerati evidentemente solo un peso assai oneroso: ne è esempio la colonia, ma anche villa Ollandini e quello che era il suo meraviglioso giardino, la fortezza di Sarzanello, la vecchia strada ciottolata che conduce alla Fortezza Castracani, l’ospedale San Bartolomeo, il meno prezioso palazzo neogotico, sede del Canale Lunense, la cui facciata è offesa da quindici anni di totale incuria, il cui manufatto era probabilmente così solido che capriate esterne e tapparelle in legno tuttora resistono allo spregio di gronde e pluviali bucati che le innondano di acqua per interi inverni. E molti altri preziosi manufatti che costituicono le vere risorse inestimabili del nostro territorio.



Non sono tempi facili, ma avremmo bisogno di imprenditori e amministratori che come, Adriano Olivetti, non investissero solo per i propri interessi personali. Ci mancano imprenditori e amministratori illuminati, che guardino al futuro dei giovani, che abbiano fantasia e coraggio, che investano sul tempo, sull’equità e sostenibilità degli interventi, sulla cultura, sul turismo. La via del mattone, come quella dei centri commerciali sulle aree vergini, è la più facile, scontata, corruttibile, ha tempi brevi, distrugge l’appeal del nostro territorio, produce profitti per pochi, offre lavoro edile a termine, promette alle famiglie l’impiego per centinaia di commessi part-time, senza formazione e quindi con limitatissime prospettive per il futuro.