domenica 29 gennaio 2012

L'utopia frugale

Marino Niola intervista Serge Latouche – La Repubblica 14.01.2012

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l'unica via all'abbondanza è la frugalità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e infelicità». E’ la tesi provocatoria di Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all'Università di Paris Sud, universalmente noto come il profeta della decrescita felice. Il paladino del nuovo pensiero critico che non fa sconti né a destra né a sinistra sarà a Napoli dal 16 al 20 gennaio, ospite della Fics (Federazione Internazionale Città Sociale) e protagonista del convegno internazionale "Pensare diversa-mente. Per un'ecologia della civiltà planetaria" organizzato dal Polo delle Scienze Umane dell'Università Federico II. Il tour italiano dell'economista eretico coincide con l'uscita del suo nuovo libro Per un'abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (Bollati Boringhieri). Un'accesa requisitoria contro l'illusione dello sviluppo infinito. Contro la catastrofe prodotta dalla bulimia consumistica.

Cos'è l'abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro.
«Parlo di "abbondanza" nel senso attribuito alla parola dal grande antropologo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell'età della pietra. Sahlins dimostra che l'unica società dell'abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».

Vuol dire che non è il consumo a fare l'abbondanza?
«In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un'insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua missione è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l'austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere».

Perché definisce Joseph Stiglitz un'anima bella?
«Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni '30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l'Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza precedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni '70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil aumentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un'età dell'oro che non ritornerà».

E’ il caso anche dell'Italia?
«Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. E’ stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono».

I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa?
«Purtroppo i governi spesso sono incapaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i costi di prolungarne l'agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».

Lei definisce- la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di autonomia democratica. Chi decide per noi?
«Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L'esempio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato finanziario a scegliere per lui. Più che autonoma, la nostra è una società individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma consumatori coatti».

Qual è il ruolo del dono e della convivialità nella società della de-crescita?
«L'alternativa al paradigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società conviviale, che non sia più sottomessa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimento del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimostrato l'antropologo Marcel Mauss, all'origine della vita in comune c'è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricambiare. Dobbiamo dunque ricomporre i frammenti postmoderni della socialità usando come collante la gratuità, l'antiutilitarismo. In questo concordo con gli esponenti italiani dell'economia della felicità, come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, che si rifanno alla grande lezione dell’economia civile napoletana del Settecento di Antonio Genovesi».

Il capitalismo è l'ultimo pugile rimasto in piedi sul ring della storia?
«Non so se sia proprio l'ultimo pugile, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l'eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che siamo ad una svolta della storia. Se un tempo si diceva "o socialismo o barbarie" oggi direi "o barbarie o decrescita". Serve un progetto eco-socialista. E’ tempo che gli uomini di buona volontà si facciano obiettori di crescita».

Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l'orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa?
«Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell'11 settembre che ha dimostrato che la storia non era per niente finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fine del modello liberal capitalista».

A chi dice che l'abbondanza frugale è un'utopia lei risponde che è un'utopia concreta. Non è una contraddizione in termini?
«No, perché per me l'utopia concreta non significa qualcosa di irrealizzabile, ma è il sogno di una realtà possibile. Di un nuovo contratto sociale. Abbondanza frugale in una società solidale. Sta a noi volerlo».

Quel contadino che può salvare le nostre terre

di Carlo Petrini


in “la Repubblica” del 7 gennaio 2012

Il “Manifesto per la Terra e per l'Uomo” di Pierre Rabhi risale al 2008 e adesso è uscito in Italia.
Soprattutto in Francia e in Africa, Rabhi è una delle figure più carismatiche per i movimenti ecologisti, dell'agricoltura biologica e biodinamica. Forse è un po' meno conosciuto da noi, al di là delle sempre attente reti ambientaliste, anche perché le sue pubblicazioni in Italia sono piuttosto rare. Ciò non toglie che sia una figura straordinaria, e che questa traduzione che esce per i tipi di Add Editore (pagg.169, euro 15) ci consenta di avvicinarci più agilmente alla sua visione del mondo e della vita. Prima di parlarne però è bene partire dalla sua storia. Nato nel 1938 in Algeria Rabhi perde presto i genitori e viene adottato da una coppia francese. Passa gli anni della sua prima formazione a Parigi dove, più che le scuole, frequenta le fabbriche, luoghi che gli forniscono materiale buono per le sue prime profonde riflessioni sulla natura dell'uomo. Poi, negli anni ‘60, decide di trasferirsi in campagna con la moglie, e precisamente ad Ardèche, nel Sud Est della
Francia, in un territorio piuttosto difficile dal punto di vista agronomico, che tuttavia non scalfisce la sua capacità di abbracciare e favorire la vita. Anzi, le difficoltà del territorio diventano uno stimolo. Si avvicina presto, nei primi ‘70, alle teorie di Steiner e Pfeiffer sull'agricoltura biologica e biodinamica, e lentamente trasforma la sua piccola fattoria in quella che lui stesso oggi definisce "un'oasi di vita".

Intanto si occupa di viaggiare e insegnare ai contadini, soprattutto quelli africani e di zone povere del pianeta, quella che anche lui definisce "agroecologia": un modo semplice, armonico con la Natura, per far fruttare i terreni senza depredare risorse e riconquistare la propria sovranità alimentare; per nutrirsi coniugando le proprie esigenze con quelle dell'ambiente e nel frattempo circondarsi di bellezza. Un fattore, quest'ultimo, che va ben al di là della semplice questione estetica (e per questo rivoluzionario), decisivo in tutte le sue riflessioni, molto alte e molto comprensibili allo stesso tempo. La popolarità nella sua terra adottiva cresce molto negli anni, al punto che nel 2002 rischia seriamente di candidarsi all'Eliseo: un contadino Presidente, sarebbe stato un bel sogno, ma gli ostacoli in quel caso erano davvero insormontabili.

Quest'aneddoto sulla sua vita non tragga in inganno: Rabhi è e resta un contadino, e come tutti i veri
contadini ha un modo di pensare animato da un amore quasi fisiologico per la semplicità. È assolutamente guidato da quel buon senso che, pur se molto immediato in chi lo pratica con  convinzione, è in realtà uno dei modi di ragionare più complessi che si possano immaginare: tiene conto delle connessioni nascoste attorno all'io ed acquista potenza in maniera direttamente proporzionale alla complessità che abbraccia. Da qui scaturiscono parole pienamente condivisibili, che nella prima parte del libro, dedicata alla Terra, forse non riveleranno nulla di nuovo a chi frequenta queste tematiche, ma sono espresse con una linearità e un'immediatezza che rendono lo strumento, la forma di manifesto, quanto mai utile ed efficace.

Si va ancor più in profondità nella seconda parte, con tema umanesimo, che ci parla della necessità di una profonda rivoluzione delle coscienze per cambiare paradigmi, in particolare a partire dalla comprensione e dalla ricerca della bellezza. «Può la bellezza salvare il mondo?» si chiede retoricamente Rabhi, e si capisce che il suo incanto di fronte all'armonia della natura non è semplice rapimento poetico, ma è struttura, programma politico, comprensione del complesso, del nascosto, rispetto per la delicatezza dei sistemi ecologici ma anche tributo alla grandezza che possono ancora esprimere i contadini su questa Terra tanto bistrattata. Il messaggio che bellezza, piacere o paesaggio siano i veri presupposti per un'ecologica gestione della cosa umana non è ancora del tutto compreso oggi: mentre si risvegliano tante coscienze ambientaliste, il bello e il buono purtroppo restano spesso dei tabù, confusi con un lusso per pochi. Devono invece essere la norma per tutti, a partire dalla loro più immensa semplicità, se vogliamo che la qualità della vita diventi qualcosa di reale, piuttosto che una buona intenzione ripetuta all'infinito.

Paesaggio: così l'Italia ha cambiato faccia

Almanacco della Scienza. Quindicinale del Consiglio Nazionale della Ricerche, giugno 2011

Dall'Unità d'Italia a oggi, i mutamenti del paesaggio italiano sono stati radicali. Diversi i modi, i ritmi e i tempi la matrice di tali processi: il passaggio da un'economia rurale a una basata sull'industria e protesa verso la terziarizzazione.

"I paesaggi italiani sono stati interessati dal processo di ridistribuzione della popolazione che ha visto incrementi sostenuti in prossimità di sistemi urbani e litoranei, e cali demografici altrettanto significativi lungo tutto l'arco alpino e la dorsale appenninica", spiega Maria Mautone, direttore del Dipartimento patrimonio culturale (Dpc) del Cnr e professore ordinario di Geografia presso l'Università ‘Federico II' di Napoli. "L'esodo rurale, coinvolgendo le fasce più giovani e attive, ha condannato l'entroterra montano e collinare a una ‘marginalità' che ancora oggi caratterizza estesi ambiti del paese, mentre i poli urbani si sono imposti sempre più come ‘aree trainanti', dello sviluppo". "Il un turismo balneare intensificando in modo sostenuto la trama edilizia, ha depauperato lo skyline costiero e biotopi di rilievo, caratterizzati da macchia mediterranea, sistemi dunari e retrodunari tipici dei litorali bassi e sabbiosi" prosegue la docente.

Così il territorio italiano ha via via perso la sua armonica fusione e interazione tra componenti naturali e antropiche.

"Ad esempio, nelle prime carte topografiche d'Italia, prodotte alla fine dell'Ottocento dall'Istituto geografico militare, Milano si mostrava ancora come una ‘città compatta', in cui era possibile riconoscere l'imprinting delle molteplici stratificazioni storiche e culturali", continua il direttore del Dpa-Cnr. "Tuttavia, già nelle carte degli anni Trenta, la città si sviluppa in tempi così ristretti da far parlare di ‘espansione a macchia d'olio' del tessuto edilizio che va a fagocitare, la campagna circostante".
Tale dinamica segnerà l'evoluzione di molte città in ‘agglomerazioni', insiemi discontinui per qualità e valori edilizi. Però anche l'auspicato ritorno verso aree rurali e centri minori, a partire dagli anni Ottanta, non è stato meno insidioso per il paesaggio italiano.

"Questo movimento inverso, ‘rurbanizzazione', può essere considerato un ulteriore dilagare della città nella campagna", commenta Mautone. "Mentre i territori rimasti marginali hanno paradossalmente conservato integro il loro paesaggio, ma svuotandolo di significati. Ad esempio, i centri minori disposti su siti d'altura si caratterizzano per un incremento delle residenze dismesse e abbandonate; si perdonole sistemazioni tradizionali del paesaggio agrario italiano (tagliapoggio, cavalpoggio, ciglionamento, terrazzamento). Nel caso delle aree marginali è necessario un grande piano di sviluppo economico che, partendo dalle risorse culturali e ambientali, leghi paesaggio e produttività in un'ottica sostenibile".

Tra il 1965 e il 1968 il Cnr realizza i 26 fogli della ‘Carta dell'utilizzazione del suolo d'Italia', fotografando l'assetto colturale dell'Italia prima che i fenomeni dell'urbanizzazione diffusa e dell'industrializzazione lo stravolgessero. "Realizzata con il supporto della Direzione generale del Catasto, sulla base cartografica del Tci" continua la docente, "la Carta ha ancora oggi grande valore, anche perché corredata da una collana di ‘Memorie illustrative' che, analizzano dati statistici tratti dai censimenti dell'agricoltura Istat".

Per rispondere alle esigenze di tutela dei beni culturali in una prospettiva più ampia e complessa, in anni più recenti il Cnr ha promosso il ‘Progetto finalizzato sui beni culturali'. Le linee di ricerca attuate dal Dipartimento patrimonio culturale nell'ultimo quinquennio si sono poi rivolte alla gestione integrata e a una visione dinamica degli aspetti materiali e immateriali dei sistemi territoriali. In tale prospettiva, il volume ‘Patrimonio culturale e paesaggio. Un approccio di filiera per la progettualità territoriale' (a cura di Maria Mautone e Maria Ronza) sintetizza al meglio quest'iter di ricerca.

"L'Ente, avvalendosi dell'integrazione di competenze e professionalità" conclude Mautone "ha maturato diversificate metodologie nell'ambito della ricerca di base e applicata per leggere e valutare i frammenti di cui si compone la realtà del territorio"

Bulimia immobiliare

Luca Martinelli, 24/10/2011. http://www.altraeconomia.it/

Appartamenti invenduti in tutta Italia, ma si continua a costruire. Si allungano i tempi dei mutui, aumentano gli sfratti: benvenuti nella “bolla 2.0”


Nemmeno chi cerca casa, la trova. “Difficoltà d’incontro tra domanda e offerta”, spiega Fabiana Megliola, responsabile dell’ufficio studi di Tecnocasa, rete di franchising immobiliare. E traduce: “C’è più offerta, più scelta. I potenziali acquirenti girano, girano. E i tempi di vendita si dilatano”. La Ducale spa è il braccio immobiliare di Tecnocasa. Costruisce, dal 1999. Gaetano Mirabile è un consulente commerciale della società. Il suo ufficio è a Paullo, quindici chilometri da Milano, a fianco del cantiere di “Habitaria”, un edificio in classe A, la cui costruzione è iniziata nell’autunno del 2010. “Nel primo anno, abbiamo venduto il 20% degli immobili -racconta, mi aspettavo un po’ di più. A questo punto, conto di raddoppiare entro l’ottobre 2012, quando consegneremo gli appartamenti”. Che sono una quarantina e costano in media 2.800 euro al metro quadro.

Il preventivo per un trilocale (con terrazzo) più box è di 334mila euro. Per il mutuo, mi spiega Gaetano, potrei avvalermi di Kìron, altra società del gruppo. Per chi può, il servizio “chiavi in mano” offre anche una persona dedicata a vendere, attraverso la rete Tecnocasa, la mia casa “usata”. La Ducale (44,9 milioni di euro di fatturato nel 2007, 13,6 nel 2009, 21,2 nei primi 7 mesi del 2010) cerca di restare a galla investendo sull’efficienza energetica degli appartamenti e sulla capacità di far rete tra le diverse realtà del gruppo Tecnocasa, “gli altri, a Paullo, alla consegna degli appartamenti se va bene hanno venduto il 20% degli immobili”.

È una nuova emergenza casa, che oggi non è più, né solo, un problema legato all’accesso, al “diritto all’abitare”: l’edilizia residenziale sta affrontando una fase patologica e degenerativa (si continua a costruire, nonostante il numero di compravendite immobiliari sia caduto del 29% dal 2006 al 2010) e il paziente, che è l’Italia, rischia di non guarire più. .