lunedì 31 gennaio 2011

“STOP AL CONSUMO DEL TERRITORIO” Il movimento ambientalista sosterrà la raccolta di firme

Il Secolo XIX 28-1-2011
di Alice Cervia

«SI RISCHIANO dissesto idrogeologico e disastri ambientali a causa della  eccessiva cementificazione». E’  quanto denuncia, alla luce dei recenti  eventi franosi che hanno coinvolto  quasi la totalità del nostro territorio,  il movimento “Stop al consumo del  Territorio”, costituitosi nella nostra  provincia nel giugno 2010, sulla scia  dell’analogo movimento nazionale.  La soluzione? Secondo gli attivisti  Del movimento è da ricercarsi in Piani  Urbanistici a consumo di territorio  zero e nella promozione e manutenzione  di aree agricole e boschive.  .«Nei prossimi giorni – spiega Silvia  Minozzi, coordinatrice del movimento  Spezzino raccoglieremo  ed  estendere mo un iniziativa promossa  da alcuni cittadini vicini a Sinistra  Ecologia e Libertà, gruppo molto  sensibile alle tematiche ambientali.  Si tratta di una petizione per chiedere  ai comuni che i nuovi Puc siano  ispirati al concetto del Consumo di  territorio zero; che le iniziative relative  al dissesto idrogeologico siano  volte a fare prevenzione e non solo  alla gestione delle emergenze; che si  promuova il recupero e la manutenzione  dei terreni abbandonati attraverso  il terrazzamento delle colline,  la pulizia dei canali di scorrimento  delle acque e il rinnovo del patrimonio  boschivo». Tra le aree più a rischio  la Piana del Magra e del Vara,  ma anche le zone collinari come Lerici  e Arcola. «Negli ultimi 50 anni –  prosegue la Minozzi – si è costruito  in modo disordinato e senza una adeguata  valutazione delle caratteristiche  del territorio in zone alluvionali,  troppo vicino agli argini dei fiumi seguendo  logiche speculative ed economiche.  Nella piana di Ameglia per  esempio, si stanno realizzando capannoni  industriali vicino all’argine  laddove prima c’erano bei campi coltivati  e si prevede di realizzare il progetto Marinella  ( 84.000 metri quadri  di nuove edificazioni) in zone alluvionali.  I tecnici e gli uffici competenti  che fanno analisi e  pianificazioni ci sono ma non vengono  considerati né dalla Regione né  dai Comuni che preferiscono farsi  guidare da ragionamenti di tipo “politico”  ed economico. I Comuni,  strangolati dalla mancanza di finanziamenti,  pur di incassare gli oneri di  urbanizzazione, continuano ad approvare  varianti ai Piani Urbanistici  e concedono permessi edilizi per costruire  capannoni e residenze che  per lo più rimarranno vuote, centri  commerciali destinati a fallire perché  ormai ce ne sono anche troppi» 

Mercato immobiliare ancora nel tunnel: in tre anni oltre 120 mila case invendute

La Repubblica, 25 - 1- 2011

L'allarme nell'indagine svolta dalla Commissione ambiente della Camera: "Situazione grave per compravendite, accesso al mutuo, sfratti e offerta di abitazioni in affitto
"Tre anni di mercato in flessione hanno prodotto il dato allarmante di uno stock di 'giacenze' che ha ampiamente superato i 100 mila alloggi e oggi si attesta intorno ai 120 mila appartamenti invenduti". E' l'allarme lanciato dalla Commissione ambiente della Camera nel documento conclusivo dell'Indagine conoscitiva sul mercato immobiliare, presentato oggi.


Nel corso di varie audizioni, la Commissione spiega di aver raccolto "dati negativi" che sembrano "accentuare gli elementi di preoccupazione per il permanere di una tendenza negativa nel settore delle costruzioni che, a differenza di altri settori industriali, non sembra avere ancora toccato il punto minimo della caduta ciclica, e ha continuato a mostrare segnali che restano sfavorevoli".

La crisi, ha certificato il lavoro svolto dalla commissione parlamentare, è generalizzata e riguarda non solo il numero di abitazioni invendute, ma anche la diminuzione dell'erogazione di mutui immobiliari, il peggioramento della qualità del credito erogato, quello che il documento finale definisce il "preoccupante fenomeno di mancato accesso all'abitazione", fino all'aggravarsi del fenomeno degli sfratti.

La Commissione evidenzia inoltre che "l'annosa questione dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione ha assunto in questa fase di crisi economica una ormai inaccettabile caratteristica di sistematicità, che sottrae liquidità alle imprese, che è causa di un complessivo deterioramento dei rapporti contrattuali, anche fra soggetti privati, che in alcuni casi mette a repentaglio la stessa sopravvivenza delle aziende".

C'è poi da fare i conti con una "struttura rigida dei mercati immobiliari, sbilanciati verso la proprietà (le case di proprietà rappresentano in Italia il 72% delle abitazioni), che determina serie difficoltà a dare risposta ai diversi fabbisogni della domanda abitativa in locazione, da quelli delle giovani coppie a quelli di chi deve spostarsi per lavoro, da quelli degli studenti fuori sede, delle persone anziane e dei single a quelli degli immigrati regolari".

Per quanto riguarda in particolare gli affitti, "la situazione appare particolarmente difficile, se è vero che la quota di case in affitto in Italia (attualmente 4,4 milioni, il 18,8% delle abitazioni totali) è nettamente inferiore rispetto agli altri Paesi europei (Germania 57,3%, Olanda 47,3%, Francia 40,7%) e, soprattutto, che l'offerta di edilizia sociale in Italia è nettamente inferiore a quella degli altri Stati europei (4,5% sul totale, undicesima in Europa)". Inoltre, denuncia ancora l'organismo parlamentare, c'è una "inaccettabile quota di affitti 'in nero', che ormai supera le 500 mila abitazioni".

I deputati mettono infine in evidenza il problema del rapporto fra sistema creditizio e mercato immobiliare, sottolineando "la necessità di una chiara inversione di rotta rispetto ad una fase negativa caratterizzata da una sensibile diminuzione sia dei finanziamenti delle banche alle imprese per gli investimenti sia delle erogazioni di mutui alle famiglie per l'acquisto delle abitazioni".

martedì 18 gennaio 2011

Basta con le ruspe, salviamo l'Italia

In 15 anni edificati tre milioni di ettari di territorio, l'equivalente di Lazio e Abruzzo messi insieme. E con il piano casa il processo ha avuto un'accelerazione. Appello per fermare lo scempio del paesaggio, prima che sia troppo tardi ...

di CARLO PETRINI, da "La Repubblica" del 18 gennaio 2011.

Visto che in tv i plastici per raccontare i crimini più efferati sembrano diventati irrinunciabili, vorrei allora proporne uno di sicuro interesse: una riproduzione in scala dell'Italia, un'enorme scena del delitto. Le armi sono il cemento di capannoni, centri commerciali, speculazioni edilizie e molti impianti per produrre energia, rinnovabile e non; i moventi sono la stupidità e l'avidità; gli assassini tutti quelli che hanno responsabilità nel dire di sì; i complici coloro che non dicono di no; le vittime infine gli abitanti del nostro Paese, soprattutto quelli di domani.

I dati certi su cui fare affidamento sono pochi, non sempre concordanti per via dei diversi metodi di misurazione utilizzati, ma tutti ci parlano in maniera univoca di un consumo impressionante del territorio italiano. Stiamo compromettendo per sempre un bene comune, perché anche la proprietà privata del terreno non dà automaticamente diritto di poterlo distruggere e sottrarlo così alle generazioni future. Circa due anni fa su queste pagine riportavamo che l'equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005. Dal 1950 abbiamo perso il 40% della superficie libera, con picchi regionali che ci parlano, secondo i dati del Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, di una Liguria ridotta della metà, di una Lombardia che ha visto ogni giorno, dal 1999 al 2007, costruire un'area equivalente sei volte a Piazza uomo a Milano. E non finisce qui: in Emilia Romagna dal 1976 al 2003 ogni giorno si è consumato suolo per una quantità di dodici volte piazza Maggiore a Bologna; in Friuli Venezia Giulia dal 1980 al 2000 tre Piazze Unità d'Italia a Trieste al giorno. E la maggior parte di questi terreni erano destinati all'agricoltura. Per tornare ai dati complessivi, dal 1990 al 2005 si sono superati i due milioni di ettari di terreni agricoli morti o coperti di cemento.

Come si vede, le cifre disponibili non tengono conto degli ultimi anni, ma è sufficiente viaggiare un po' per l'Italia e prendere atto delle iniziative di questo Governo (il Piano Casa, per esempio) e delle amministrazioni locali per rendersene conto: sembra che non ci sia territorio, Comune, Provincia o Regione che non sia alle prese con una selvaggia e incontrollata occupazione del suolo libero. Purtroppo, nonostante il paesaggio sia un diritto costituzionale (unico caso in Europa) garantito dall'articolo 9, la legislazione in materia è in gran parte affidata a Regioni ed Enti locali, con il risultato che si creano grande confusione, infiniti dibattiti, nonché ampi margini di azione per gli speculatori. Per esempio la recente legge regionale approvata in Toscana che vieta l'installazione d'impianti fotovoltaici a terra sembra valida, ma è già contestata da alcune forze politiche. In Piemonte è stata invece approvata una legge analoga, ma meno efficace, suscitando forti perplessità dal "Movimento Stop al Consumo del Territorio". In realtà, in barba alle linee guida nazionali per gli impianti fotovoltaici - quelli mangia-agricoltura - essi continuano a spuntare come funghi alla stregua dei centri commerciali e delle shopville, di aree residenziali in campagna, di nuovi quartieri periferici, di un abusivismo che ha devastato interi territori del nostro Meridione anche grazie a condoni edilizi scellerati.

Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall'alluvione che l'ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l'equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.

Guardandoci attorno ci sentiamo assediati: il cemento avanza, la terra fa gola a potentati edilizi, che nonostante siano sempre più oggetto d'importanti inchieste giornalistiche, e in alcuni casi anche giudiziarie, non mollano l'osso e sembrano passare indenni qualsiasi ostacolo, in un'indifferenza che non si sa più se sia colpevole, disinformata o semplicemente frutto di un'impotenza sconsolata. Del resto, costruire fa crescere il Pil, ma a che prezzo. Fa davvero male: l'Italia è piena di ferite violente e i cittadini finiscono con il diventare complici se non s'impegnano nel dire no quotidianamente, nel piccolo, a livello locale. Questa è una battaglia di tutti, nessuno escluso.

Ora si sono aggiunte le multinazionali che producono impianti per energia rinnovabile, insieme a imprenditori che non hanno mai avuto a cuore l'ambiente e, fiutato il profitto, si sono messi dall'oggi al domani a impiantare fotovoltaico su terra fertile, ovunque capita: sono riusciti a trasformare la speranza, il sogno di un'energia pulita anche da noi nell'ennesimo modo di lucrare a danno della Terra. Anche del fotovoltaico su suoli agricoli abbiamo già scritto su queste pagine, prendendo come spunto la delicatissima situazione in Puglia. I pannelli fotovoltaici a terra inaridiscono completamente i suoli in poco tempo, provocano il soil sealing, cioè l'impermeabilizzazione dei terreni, ed è profondamente stupido dedicargli immense distese di terreni coltivabili in nome di lauti incentivi, quando si potrebbero installare su capannoni, aree industriali dismesse o in funzione, cave abbandonate, lungo le autostrade. La Germania, che è veramente avanti anni luce rispetto al resto d'Europa sulle energie rinnovabili, per esempio non concede incentivi a chi mette a terra pannelli fotovoltaici, da sempre. Dell'eolico selvaggio, sovradimensionato, sovente in odore di mafia e sprecone, se siete lettori medi di quotidiani e spettatori fedeli di Report su Rai Tre già saprete: non passa settimana che se ne parli su qualche testata, soprattutto locale, perché qualche comitato di cittadini insorge. È sufficiente spulciare su internet il sito del movimento "Stop al Consumo del Territorio", tra i più attivi, e subito salta agli occhi l'elenco delle comunità locali che si stanno ribellando, in ogni Regione, per i più disparati motivi.

Intendiamoci, questo non è un articolo contro il fotovoltaico o l'eolico: è contro il loro uso scellerato e speculativo. Il solito modo di rovinare le cose, tipicamente italiano. Anche perché l'obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 si può raggiungere benissimo senza fare danni, e noi siamo per raggiungerlo ed eventualmente superarlo. Questo vuole essere un grido di dolore contro il consumo di territorio e di suolo agricolo in tutte le sue forme, la più grande catastrofe ambientale e culturale cui l'Italia abbia assistito, inerme, negli ultimi decenni. Perché se la terra agricola sparisce il disastro è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. E' come indebitarsi a vita e indebitare i propri figli e nipoti per comprarsi un televisore più grosso: niente di più stupido.

Il problema poi s'incastra alla perfezione con la crisi generale che sta vivendo l'agricoltura da un po' di anni, visto che tutti i suoi settori sono in sofferenza. Sono recenti i dati dell'Eurostat che danno ulteriore conferma del trend: "I redditi pro-capite degli agricoltori nel 2010 sono diminuiti del 3,3% e sono del 17% circa inferiori a quelli di cinque anni fa". Così è più facile convincere gli agricoltori demotivati a cedere le armi, e i propri terreni, per speculazioni edilizie o legate alle energie rinnovabili. Ricordiamoci che difendendo l'agricoltura non difendiamo un bel (o rude) mondo antico, ma difendiamo il nostro Paese, le nostre possibilità di fare comunità a livello locale, un futuro che possa ancora sperare di contemplare reale benessere e tanta bellezza.

Per questo è giunto il momento di dire basta, perché rendiamoci conto che siamo arrivati a un punto di non ritorno: vorrei proporre, e sperare che venga emanata, una moratoria nazionale contro il consumo di suolo libero. Non un blocco totale dell'edilizia, che può benissimo orientarsi verso edifici vuoti o abbandonati, nella ristrutturazione di edifici lasciati a se stessi o nella demolizione dei fatiscenti per far posto a nuovi. Serve qualcosa di forte, una raccolta di firme, una ferma dichiarazione che arresti per sempre la scomparsa di suoli agricoli nel nostro Paese, le costruzioni brutte e inutili, i centri commerciali che ci sviliscono come uomini e donne, riducendoci a consumatori-automi, soli e abbruttiti.

Una moratoria che poi, se si uscirà dalla tremenda situazione politica attuale, dovrebbero rendere ufficiale congiuntamente il Ministero dell'Agricoltura, quello dell'Ambiente e anche quello dei Beni Culturali, perché il nostro territorio è il primo bene culturale di questa Nazione che sta per compiere 150 anni. Sono sicuro che le tante organizzazioni che lavorano in questa direzione, come la mia Slow Food, o per esempio la già citata rete di Stop al Consumo del Territorio, il Fondo Ambientale Italiano, le associazioni ambientaliste, quelle di categoria degli agricoltori e le miriadi di comitati civici sparsi ovunque saranno tutti d'accordo e disposti a unire le forze. È il momento di fare una campagna comune, di presidiare il territorio in maniera capillare a livello locale, di amplificare l'urlo di milioni d'italiani che sono stufi di vedersi distruggere paesaggi e luoghi del cuore, un'ulteriore forma di vessazione, tra le tante che subiamo, anche su ciò che è gratis e non ha prezzo: la bellezza. Perché guardatevi attorno: c'è in ogni luogo, soprattutto nelle cose piccole che stanno sotto i nostri occhi. È una forma di poesia disponibile ovunque, che non dobbiamo farci togliere, che merita devozione e rispetto, che ci salva l'anima, tutti i giorni.

domenica 16 gennaio 2011

NO della Giunta Regionale a 3 nuovi porticcioli turistici

TRE NO E UNA RIFLESSIONE


Nel corso della prima riunione di questo nuovo anno, la Giunta regionale ligure, con tre diverse delibere proposte dall'assessore all'Ambiente Renata Briano, ha detto no a tre progetti di ampliamento o di realizzazione di altrettanti porti turistici.

In particolare, ha espresso parere di inammissibilità alla procedura di Via (Valutazione Impatto Ambientale) regionale in merito al progetto di ampliamento e completamento del porto turistico di Diano Marina, in quanto in contrasto con le misure di salvaguardia per la difesa delle coste e degli abitati costieri dall'erosione marina; ha deliberato che la proposta di realizzare un porto turistico lungo il litorale di Albenga - progetto dell'amministrazione comunale apprezzabile per il buon rapporto con la città e per il fatto che non prevedeva nuove seconde case - dopo essere stata sottoposta a procedura di Vas (Valutazione Ambientale Strategica), è risultata ambientalmente non compatibile perché anch'essa in contrasto con le misure di salvaguardia delle coste e degli abitati costieri; ha infine espresso parere negativo in merito alla nuova soluzione progettuale "Porto turistico della Margonara" presentata dall'Autorità portuale di Savona perché anche questa incompatibile con la tutela e la qualità ambientale del tratto di costa interessato.

Il tema nel suo complesso necessita però di una riflessione più profonda, che non riguarda le valutazioni sui singoli progetti, bensì un quadro di programmazione territoriale che tenga conto di molte esigenze (ambientali, economiche, turistiche, paesistiche). Infatti, il 29 dicembre scorso, sempre l'assessore Briano ha presentato alla Giunta un argomento che propone la revisione del piano territoriale della costa alla luce dei principi del piano di tutela dell'ambiente marino e costiero, "nonché - e qui cito testualmente il documento - una pianificazione integrata della costa verificata anche sotto il profilo ambientale attraverso la procedura di Vas" e la sospensione di tutti i procedimenti in corso, ad eccezione di quelli che hanno concluso l'iter previsto.

Questo significa che la Giunta ha deciso di fermarsi a riflettere sulla densità territoriale delle strutture destinate alla nautica da diporto in Liguria che, soprattutto nel ponente, sono arrivate a raggiungere un rapporto 1:1 fra porti e amministrazioni. Il risultato di questa riflessione sarà poi sottoposto al Consiglio.

Nel 1997, quando fu approvato il decreto che diede impulso alla realizzazione di una maggiore offerta di posti barca, l'Italia era molto carente rispetto a concorrenti come la Francia, nonostante l'enorme sviluppo delle proprie coste. La Liguria non faceva eccezione. L'offerta di posti barca nella nostra regione allora era di circa 14 mila. Il piano decennale della costa che fu varato in quel momento prevedeva un aumento di 10 mila posti barca. Nel 2007 si è arrivati alla cifra di circa 24.500 posti, in cui sono contati anche i posti in via di realizzazione nei progetti approvati e in corso.

La Giunta ha ritenuto che sia venuto il momento di una riflessione, e anche di decidere una pausa, con l'obiettivo di riconsiderare bene tutti i fattori dello sviluppo futuro della nautica nella nostra regione e del suo rapporto con le attività turistiche, la tutela e la valorizzazione del nostro territorio.

È noto che la Liguria è diventata in questi anni la regione con la maggiore densità di approdi e di offerta di posti barca. È anche evidente come lo sviluppo della nautica nel periodo recente abbia visto la prevalenza assoluta della diffusione di imbarcazioni di grandi dimensioni, mentre sono aumentate le difficoltà per la nautica minore, ed è diventato più difficile l'accesso al mare per gli stessi residenti in Liguria. È inoltre intervenuta una gravissima crisi economica che ha inciso anche nel settore nautico, e le prospettive di una ripresa ad oggi non sono per nulla chiare.

Le valutazioni che vanno approfondite riguardano il rapporto che deve esserci tra la tutela di un territorio costiero molto delicato e già notevolmente utilizzato per gli approdi e urbanizzato, le modalità stesse di realizzazione degli approdi (un conto è utilizzare strutture già esistenti che possono essere riconvertite verso l'uso turistico, un conto è intervenire su tratti di costa non compromessi) e il tipo di offerta che si realizza.

Si tratta sia di considerare il valore in sé dei beni ambientali e paesaggistici, sia di definire valutazioni realistiche sui rapporti tra investimenti e benefici economici per il turismo in un'ottica generale del comparto.

Non basta più una verifica di fattibilità tecnico-ambientale delle proposte progettuali, senza un ragionamento più ampio sul modello di sviluppo.

Con la legge regionale 20 del 4 agosto 2006 (articolo 41, comma 1) è stata introdotta la previsione del piano di tutela dell'ambiente marino e costiero quale strumento idoneo a garantire un miglioramento della qualità ambientale della fascia costiera e la programmazione e gestione sostenibile delle risorse ambientali ivi presenti.

Molte ipotesi progettuali oggi si pongono in contrasto con i principi fondanti di questo piano, perché non costituiscono opere tese alla salvaguardia del litorale e delle sue risorse bensì comportano la perdita irreversibile di una risorsa non solo ambientale ma anche economica. E questo nonostante la connotazione di questi progetti sia positiva da un punto di vista urbanistico.

Dobbiamo affrontare il tema nel suo complesso perché solo riflettere su questa complessità ci potrà far fare la scelta più giusta per noi e per le future generazioni.

Claudio Burlando

* Presidente della Regione Liguria

http://www.regione.liguria.it/giornale-della-giunta

"MEGLIO LA TERRA DEI SOLDI" Dai contadini stop al cemento


Il cambio di destinazione valorizzerebbe i terreni, ma a loro non interessa. "Questa è la nostra vita da sempre, far morire i campi non è vera ricchezza".


di Francesco Erbani (La Repubblica del 10 Gennaio 2011).

TREVISO - Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Da Morgano a Valdobbiadene, da Godega di Sant'Urbano a Conegliano e quindi nel capoluogo, a Treviso. Altri, si dice, verranno. Sono contadini, proprietari di terreni che i Comuni vogliono rendere edificabili per farci villette e capannoni industriali. Ma loro si oppongono e insistono perché restino agricoli. Ci perdono tanto: il cambio di destinazione può valere dalle cinque alle dieci volte il prezzo di partenza.

Non è come una decina d'anni fa, quando questo lembo di Veneto fu seminato di cemento e un'edificabilità faceva crescere anche di cento volte il prezzo agricolo. Ma è pur sempre la rinuncia a un bel gruzzolo.

Eppure non demordono. La famiglia Favaro di Morgano e la famiglia Caldato di Treviso coltivano la terra che coltivavano i nonni e chiedono di continuare o anche solo di tosare il quadrato verde che sta davanti a casa, di curare gli scolmatoi, di pulire le rogge e di non vederlo diventare lo svincolo di un distretto industriale. Nel frattempo il Comune gli impone di pagare l'Ici come se avessero già costruito. Ma dalla loro parte sono schierati il Fai e Italia Nostra e li assiste Francesco Vallerani, geografo dell'Università di Venezia.

I Favaro e i Caldato sono mosche bianche in questa provincia. Stando ai calcoli di Tiziano Tempesta dell'Università di Padova, nei piani regolatori dei 95 comuni del trevigiano sono conteggiate 1077 aree produttive, dieci per comune, la gran parte inferiori a 5 ettari e disseminate a caso nel territorio. Molti, però, sono i capannoni sfitti (il 20 per cento in tutto il Veneto) e molte le aree già lottizzate sulle quali non si costruisce. Una, grande 15 mila metri quadri, è quasi al confine della proprietà dei Favaro. E lungo la provinciale che porta dai Caldato c'è un filare di stabilimenti vuoti. Ma nonostante questo, le concessioni di edificabilità fioccano quasi per inerzia. Chiunque può se le accaparra. Non tutti, perché il trevigiano è il territorio con il più alto numero di comitati in difesa del paesaggio, benedetti da Andrea Zanzotto che vigila dalla sua casa di Pieve di Soligo.

I Favaro hanno 4 ettari di terreno a Morgano. Coltivano mais. Ma la loro specialità è un vivaio di piante autoctone - aceri, querce, olmi, platani - allevate in un piccolo bosco che ripropone un brandello di paesaggio veneto. Chi le compra le lascia crescere lì e poi le porta via con l'intera zolla dopo tre o quattro anni. L'amministrazione comunale ha deciso che Morgano deve ingrandirsi con un'area industriale di 90 mila metri quadri in una zona paludosa, circondata da corsi d'acqua e che, sovrastata di cemento, rischia di finire sotto, come durante l'alluvione di due mesi fa. Siamo nel Parco del fiume Sile, in un sito protetto dalla Comunità europea. In questi 90 mila metri quadri ci sono i 40 mila dei Favaro. "A noi bastano i soldi che guadagniamo facendo gli agricoltori. Qui il cemento si mangia la terra, ma non porta più ricchezza", dice uno dei fratelli Favaro, "se avessimo l'edificabilità e vendessimo non ci darebbero soldi, ma un appartamentino in una villetta a schiera". Ora la decisione rimbalza fra Comune e Regione. Ma se l'edificabilità fosse imposta, i Favaro andranno in tribunale.

Più piccolo - 18 mila metri quadri - il terreno dei Caldato, alle porte di Treviso. Ma molto antica la storia che Pietro, con il fratello Roberto e la sorella Enrichetta, ha ricostruito fin dal Seicento e che attesta la loro proprietà dai primi dell'Ottocento. Ci sono una vigna, un orto e tanto prato. Ma il Comune di Treviso vorrebbe farne area industriale, squarciando il terreno con una strada che sfocia in una rotonda. E ai Caldato chiede di pagare l'Ici dal 2003, quando fu approvata la variante al piano regolatore: quasi 60 mila euro. "Della ricchezza che altri inseguono non sappiamo che farcene", dice Pietro. Ora con il Comune è in corso una trattativa. È intervenuto il sindaco. "Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti".