Sulla necessità di ridurre al minimo lo scellerato consumo di suolo, in particolare quello agricolo, a parole siamo ormai quasi tutti d’accordo. Non solo quindi gli “ambientalisti”, ma ogni persona di sano buonsenso, che abbia a cuore la terra, il paesaggio, la salute, l’agricoltura ed il turismo. Nessun politico intelligente e anche nessun illuminato imprenditore può pensare che sia proficuo costruire insediamenti artigianali non produttivi, zone industriali ipotetiche, nuovi porticcioli inutilizzati, aree residenziali mastodontiche e sovradimensionate - con la popolazione come ben si sa a crescita zero - senza consultare le più recenti indagini di mercato che spiegano le “tendenze” di oggi: dove va il turismo, cosa si chiede al commercio, quali le modalit‡ e le tipologie di produzione, le richieste del mercato immobiliare, il destino della nautica.
Oggi il paesaggio, la campagna, il territorio nel suo complesso (anche quello “privato”) devono essere percepiti e definiti come “beni comuni”, luoghi di cui tutti beneficiamo, appagano i nostri sensi, producono benessere sociale, sono un diritto per le generazioni future alle quali dovremmo lasciare la speranza di trovare in futuro un posto di lavoro, soprattutto nei settori del turismo, dell’agricoltura e dei servizi ad essi connessi.
Dalle colline e dai borghi del Magra tutti sostanzialmente vorremmo vedere "paesaggi", non solo case e capannoni industriali.
Ed è ormai dimostrato che l’Italia è il maggior consumatore di suolo vergine (e di cemento) d’Europa; b) tale consumo minaccia drammaticamente la nostra cultura (quella dei luoghi, delle opere d’arte e dell’archeologia), l’agricoltura ed il turismo.
Cosa chiediamo alle nostre amministrazioni che annaspano da anni nella crisi e si illudono che gli oneri di urbanizzazione siano sufficienti a scongiurare la bancarotta dei comuni? Che si ravvedano poiché in realtà si tratta solo di piccoli salvagente, galleggianti, ma temporanei e del tutto illusori col mare in tempesta.
Ci pare invece assai importante affrontare la questione insieme tecnica e politica dei piani regolatori. Pensiamo al Puc di Sarzana, da tempo scaduto, e non si sa per quale motivo, tenuto in vita a colpi di varianti ( o forse proprio per questo tenuto in vita) Ameglia e Castelnuovo: ne enumeriamo tre anche perché ognuno di essi strategico e collegato agli altri.
A Sarzana il P.R.G. scaduto ormai da tre anni non necessita soltanto di un naturale adeguamento tecnico e giuridico, ma culturale e di programmazione economica realistica. Esiste la necessità di pensare quale sia il futuro dell’urbanistica e quindi del vivere della intera nostra vallata, e per farlo c'è bisogno di una normale quanto attenta "pianificazione", discussa e partecipata, non delle solite furberie che lasciano spazi aperti per inserire progetti, permessi, licenze dell’ultim’ora.
Ma soprattutto, con il metodo delle varianti si cancella e compromette il ruolo della vera pianificazione urbanistica che mira ad un utilizzo migliorativo del territorio, non omologando le diverse aree (verdi, dismesse, residenziali, artigianali) per far posto a quelle commerciali: negando così i diritti di tutti a veder coniugato ambiente e lavoro, infrastrutture e partecipazione, viabilità e salute, zonizzazioni acustiche e benessere.
Gli ultimi grandi colpi di coda nati più dalle esigenze dei privati che dalla programmazione sensata delle amministrazioni (Botta, Tavolara, Bozi, Romito, Olmo, Marinella, Ameglia, con annesse infrastrutture) non sono più, e da tempo, in linea con gli orientamenti restrittivi dell’urbanistica regionale, hanno visto e vedranno ancora le associazioni sul piede di guerra. Ci auguriamo che le giunte locali diano un segno di vita socialmente, culturalmente, politicamente illuminata, adeguandosi ad una visione del territorio come “bene comune” per la difesa del paesaggio, come valore di storia, di memoria, di vera economia e anche come un diritto di futuro da non alienare dalle future generazioni.
Roberto Mazza
portavoce Movimento Stop al Consumo di Territorio