venerdì 9 dicembre 2011

L’alluvione che ha spazzato il sogno del paradiso

di  Marco Preve, Blog Trenette e Mattoni

A chi in queste ore, di fronte al tracollo fisico di una delle zone più celebrate al mondo per le sue qualità ambientali, pratica la filosofia del “se non ora quando”, intesa come approfondimento, dibattito ed eventuale denuncia delle possibili cause della disastrosa alluvione, si oppone un’altrettanto agguerrita linea di pensiero: ora onoriamo le vittime, rimbocchiamoci le maniche per ricostruire e dopo sarà il tempo delle polemiche.

Come se la riflessione impedisse l’attività di soccorso e di ricostruzione. E’ una forma di ipocrisia che offende per primi donne e uomini uccisi dal fango. Ed è, a ben vedere, la stessa ipocrisia che in questi anni, dietro l’immagine da cartolina, dietro la griffe del turismo eco compatibile, dietro l’incessante sbarco di vacanzieri americani, colti e disposti a spendere, ha nascosto quel dissolvimento sociale delle Cinque Terre che è all’origine anche dello sfaldamento dei suoi terrazzamenti, della impietosa ribellione dei suoi antichi rivi. E della sua disgregazione sociale, come evidenziano molti osservatori.

Si può dire che l’alluvione che ha spazzato il sogno del paradiso è iniziata un anno fa, quando l’inchiesta giudiziaria sui vertici dell’Ente Parco ha portato a galla un sistema clientelare che, più che alla conservazione dell’ambiente, pensava a quella del potere e, per ottenerlo, era disposto anche a piegare le rigide norme paesistiche ed urbanistiche. E buona parte della popolazione, certo non tutta, questo sistema lo ha condiviso, qualcuno in maniera consapevole, i più per inerzia.

Perché, come ha ben spiegato lo scrittore Maurizio Maggiani, la maggior parte degli abitanti della Cinque Terre da anni aveva fatto una scelta chiara: vivere non più di agricoltura ma di camere affittate. Non è un giudizio ma un dato di fatto. Che comporta una conseguenza: se non si vive più della terra, quella stessa terra non la si cura più come si faceva prima. Ma anche chi amministra e gestisce il territorio sembrava ormai proiettato solo ad espandere quanto più possibile il “contenitore Cinque Terre”. In perfetta contraddizione con lo sviluppo di quel turismo compatibile e rispettoso che rappresentava il progetto iniziale. E così ecco spuntare enormi autosilos, la prima piscina delle Cinque Terre - quella dell’hotel Porto Roca, progettata da un ex Soprintendente e autorizzata perché «di pubblico interesse» -, il progetto di un residence, pure quello con piscina vicino a Corniglia, e ancora una proposta per 30 villette di nuovo a Monterosso. O ancora quell’idea dell’ex presidente Franco Bonanini di costruire una funivia a Riomaggiore per portare in cima al monte Bramapane più turisti possibile.

Come spiega bene Claudio Frigerio, ambientalista: «Qui alle Cinque Terre la speculazione si è solo affacciata e non ha fatto breccia, ma solo perché è arrivata la magistratura a fermarla. E' una mentalità che si era diffusa tra gli abitanti e gli amministratori e alla fine nessuno pensava più alla manutenzione minima dei torrenti - dice Frigerio -. I rivi sono sempre passati in mezzo alle case, prima aperti e poi tombinati, ma un tempo si puliva all'ingresso della copertura per evitare che scoppiassero. Poi si è smesso di farlo e questo è il risultato. Il metodo Bonanini ha arricchito molti ma ha impoverito il territorio».

Ma sarebbe ingiusto parlare di un “metodo” praticato solo dall’ex presidente del Parco. Perché la ancora più impattanti sono state altre scelte compiute nello spezzino. Basti dire che alla foce di quel Magra la cui piena ha devastato e distrutto costringendo all’evacuazione centinaia di persone, c’è in ballo il mega progetto per il porto turistico di Marinella per mille posti barca e migliaia di metri cubi di nuove volumetrie. Oppure nella piana di Brugnato, il paese in cui ha piovuto di più durante il nubifragio e dove il Vara ha esondato, è prossima la posa della prima pietra (rinviata per la devastazione) del contestato outlet intitolato, guarda caso, ShopInn Brugnato Cinque Terre: con un matrimonio tra commercio di massa e turismo culturale che farebbe rizzare i capelli anche ai più accaniti sostenitori delle unioni geneticamente impossibili.

C’è infine un’altra questione che in queste ore merita di essere accennata. Il cronico disinteresse al dibattito - che non fosse di pura accademia - su queste tematiche da parte degli ordini professionali si trasforma nei momenti della tragedia in un fiorire di dichiarazioni. Cito da un’agenzia le parole di Leopoldo Freyrie presidente nazionale degli architetti: «La manutenzione del territorio deve diventare la più grande e indispensabile infrastruttura del Paese per poter abbandonare per sempre la logica dell’emergenza. Se si fosse operato così, non ci troveremmo oggi di fronte alla nuova immane tragedia che ha colpito l’Italia». Qualcuno potrebbe gentilmente chiedere a Freyrie chi ha progettato interventi assai discutibili proprio da punto di vista dello sfruttamento del territorio? Chi li ha magnificati con rendering coloratissimi illustrandoli con al suo fianco costruttori, sindaci e assessori? Ecco, avessimo una volta una reprimenda ex ante da parte di un presidente degli architetti, sarebbe già un bel passo avanti sul fronte della cura del territorio.

Perché, come dice il presidente regionale ligure della Coldiretti Germando Gadina: «In Liguria l’avidità, nel senso più ampio del termine, si è mostrata, negli ultimi 50 anni, nel continuo furto di terreno agricolo utilizzato per edificare, cementificare, appiattire, livellare, apportare modifiche permanenti al bene “paesaggio” con l’erronea convinzione che i processi costruttivi potessero essere la chiave dell’economia ma in realtà con una sola certezza: sui terreni dove si è costruito, l’attività agricola non si farà mai più».

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