Nel primo appuntamento de "l'Italia che va" la storia di Daniel Kihlgren. Con la sua moto è arrivato a Santo Stefano di Sessanio, un paese disabitato in Abruzzo, e l'ha trasformato in un albergo diffuso. "In Italia non si deve costruire più nulla, i costruttori devono trasformarsi in restauratori"
“Due strade si separavano nel bosco/e io ho preso la meno battuta/e questo ha cambiato ogni cosa”, scrisse il poeta Robert Frost. A Daniele Kihlgren è successo davvero, ha trovato un bivio che somigliava tanto al destino e gli ha cambiato la vita. “Ero in Abruzzo, stavo facendo un giro in moto”. La strada che si arrampica sul Gran Sasso, tra prati dove puoi incontrare cavalli lasciati liberi al pascolo con l’erba che comincia lentamente a ritrovare il verde. Decine di bivi, ogni volta il dubbio, destra o sinistra. Finché la sua moto si lascia guidare dalla discesa fiancheggiata dal rosa dei mandorli in fiore e Daniele si trova lì: “Davanti a me ho visto quella torre, le case. Mi sono detto: questo sarà il mio borgo”.
Già, perché Daniele, un ragazzone che oggi ha 44 anni, ma l’entusiasmo che vorrebbero avere i ventenni, dentro di sé aveva un sogno: “Volevo trovare un paese, ancora intatto, e riuscire a riportarlo com’era. Le case, ma anche la vita. Senza un euro di contributi pubblici”.
E quel borgo aspettava proprio lui. Era Santo Stefano di Sessanio, un grumo di case arrampicate sulle pendici del Gran Sasso. Per capire come Daniele ha realizzato il suo sogno bisogna lasciarlo parlare, con quei suoi pensieri che ricordano gli studi di filosofia e l’accento lombardo che invece ti dà un’idea di sana concretezza. Poi ci sono le origini mezze svedesi, rigore e sincerità senza ombre. Ecco, Daniele è un idealista pragmatico. Soltanto una persona così poteva far rinascere un paese coinvolgendo gli abitanti. Ma soprattutto salvandone l’identità, parola che Daniele ripete spesso, come un mantra.
Un filosofo, persona normale
Ma perché ha scelto Santo Stefano di Sessanio? Kihlgren si guarda intorno, è già una risposta: non si vedono che prati, bianchi d’inverno quando la temperatura a 1.200 metri scende a meno venti, di un giallo ineguagliabile in primavera. Poi monti: il Gran Sasso, sulle spalle ne senti l’enorme massa. E la Maiella a segnare l’alba, il Sirente dove il sole tramonta. Intorno non c’è un abitato. Di notte è solo buio.
"Comprai un rudere, poi altri. Non costavano niente”, racconta. Basta vedere le vecchie fotografie di Santo Stefano per rendersene conto. Dopo gli anni ‘50 il Borgo aveva cominciato a spopolarsi, con le bestie non ci si campava più. Era una vita dura spostarle ogni stagione, dal Gran Sasso fino al Tavoliere delle Puglie.
“Negli anni Ottanta si è cominciato a pensare al turismo”, spiega Elisabetta Leone, il sindaco di queste 120 anime. Aggiunge: “Ma ci voleva un progetto. Finché è arrivato Daniele”. Sì, in paese lo chiamano per nome.
Kihlgren non ha grandi imprese alle spalle, è solo con gli abitanti del paese. Con loro si mette a ristrutturare le case che ha comprato. “Utilizziamo materiale del luogo, spesso di risulta. Niente cotto che fa chic, ma qui non c’entra. All’interno i mobili contadini risistemati”.
È lo stesso Daniele che spiega lo spirito del suo lavoro: “Non sono un architetto, ho studiato filosofia, ma sono soprattutto una persona normale”. Aggiunge: “Sarebbe straordinario riuscire a recuperare il patrimonio storico minore. In Italia ci sono 2.500 borghi abbandonati e oltre 15.000 compromessi. E noi li lasciamo andare, la storia per noi sono i grandi imperi, i monumenti solenni. Invece la vita dell’Italia è anche questa, di semplici paesi, luoghi poveri”.
Teorico, ma anche concreto: “Il recupero del patrimonio è anche un’occasione per l’economia. E alla fine la gente se ne accorge: arriva il lavoro e le case, se recuperate bene, valgono molto di più”. Con una sola condizione: “In luoghi come questi non si deve costruire più nulla. Cemento zero. In Italia continuiamo a costruire e ci sono milioni di case vuote. I costruttori devono trasformarsi in restauratori”.
Alla fine il progetto ha preso corpo: “È nato un albergo diffuso, con le stanze disseminate nelle case, così che gli ospiti potessero vivere in mezzo alla gente del paese e far rivivere il borgo”.
Camping, ristorante e cinque bambini
L’entusiasmo di Daniele è stato contagioso: lui possiede un sesto delle case di Santo Stefano, ma anche gli altri abitanti hanno cominciato a restaurare, con la stessa cura. E sono ritornati i negozi, i locali. Racconta Elisabetta Leone, il sindaco: “Abbiamo 120 abitanti, l’emorragia della popolazione si è fermata. Ma soprattutto molti di noi possono lavorare qui. La disoccupazione quasi non esiste”. Davide De Carolis è arrivato per aprire un camping. Francesca Pasquali e il suo compagno Vittorio De Felice hanno messo su il ristorante “Tra le braccia di Morfeo”. Raccontano: “Abbiamo clienti da tutto il mondo”. Tra i trentasei tavoli, vengono serviti agnello scottadito, formaggi di Castel del Monte, paccheri con la zucca. Ti capita di incontrare reali del Belgio tra i comuni visitatori. Insomma, Santo Stefano di Sessanio sta rinascendo davvero, anche se i bambini sono solo cinque, ma l’anno scorso è nata Giulia Cesare. Tutto così semplice? “Sì, si potrebbe replicare ovunque”, è convinto Kihlgren. E racconta: “Ho ricevuto 600 mail da paesi che vogliono affidarsi a noi. Ma non posso. Oggi stiamo lavorando in otto borghi e soprattutto ai Sassi di Matera. Vorrei diffondere gli alberghi diffusi, soprattutto nei borghi sconosciuti e meravigliosi della Calabria”.
Tutti d’accordo? “A volte abbiamo paura che il nostro paese diventi un borgo per vip. Che i vecchi abitanti vendano le loro case ai turisti”, sussurra qualcuno nel bar di piazza Mediceo. Kihlgren è sicuro che non sarà così: “Noi siamo l’opposto del Chiantishire. La ricetta è semplice: identità e cura. Bisogna mantenere le costruzioni e gli arredamenti, ma anche i cibi, insomma la cultura. E soprattutto le persone”.
Una cura contro il sisma
Già, la cura è il segreto che ha salvato Santo Stefano di Sessanio dallo spopolamento e, due anni fa, anche dal terremoto. Aprile 2009: il sisma devasta l’Abruzzo, decine di paesi vengono rasi al suolo. Santo Stefano no, le case restaurate con la massima cura subiscono danni minimi. Crolla solo l’antica torre medicea. Perché? “Più di dieci anni fa – racconta Camilla Inverardi, noto architetto dell’Aquila – c’era stato un intervento pubblico per realizzare un belvedere in cima alla torre. Il legno era stato sostituito con una soletta di cemento”.
Gli antichi costruivano meglio di noi? No, secondo Daniele: “La scienza strutturale è andata avanti, l’etica, però, è tornata indietro”.