Possibile che quando si ragiona di gestione del territorio, di ambiente, di degrado, di paesaggio tutti evitano di nominarla? Ancora piogge e ancora disastri di ogni genere. Ancora giusti ragionamenti sul degrado del territorio, la cementificazione scriteriata, la mancanza di visioni lunghe, coerenti, condivise e progettuali.
Tanti i fattori considerati, tanti i livelli di responsabilità. Ma all´appello manca sempre la stessa parola e lo stesso tema: l´agricoltura. Come fanno? Quando si ragiona di gestione del territorio, di ambiente, di degrado, di paesaggio come diamine fanno tutti i nostri commentatori e politici a evitare di nominare l´agricoltura? E come potrà mai il cittadino cogliere il legame tra i suoi comportamenti individuali e le conseguenze in termini di beni comuni se il legame più evidente con la sua quotidianità (il cibo!) viene sistematicamente ignorato dalle analisi? Non solo siamo quello che mangiamo, ma siamo anche il modo in cui lo coltiviamo. Decenni di sventatezza nella gestione idrogeologica del suolo si sono accompagnati a decenni in cui l´agricoltura sana, ecologica, costruttiva della salute dei territori è stata sistematicamente relegata al fondo della lista delle priorità di chiunque, a cominciare dai ministri competenti. È di stamattina la notizia che l´attuale ministro dell´agricoltura non vede l´ora di andarsene da una poltrona che da sempre considera meno prestigiosa di quanto gli spetterebbe: la prospettiva di passare alla Cultura, quella con la maiuscola, lo alletta non poco. E già prima della nomina alla sua attuale posizione manifestava onestamente il suo disinteresse a fare il "ministro delle mozzarelle". Il versante accademico non consola di più: è di un paio di giorni fa un´intervista ad uno dei più noti e rispettati esperti di viticoltura ed enologia che liquida tutto il comparto dell´agricoltura biologica e biodinamica come "agricolture da presepe". Prestigio sociale da un lato, economia sonante dall´altro: l´atteggiamento di Giancarlo Galan da un lato e quello di molti accademici dall´altro ci danno la misura di come l´agricoltura più sana e lungimirante sia stata deprivata di ogni fascino, di ogni sostegno, di ogni politica adeguata, di ogni competenza e attenzione politica. Certo che le colline e le montagne franano. Chi le coltivava con saggezza e sapienza non è stato aiutato a restare dov´era, nessuno ha riconosciuto il suo ruolo, nessuno ha remunerato adeguatamente i suoi prodotti. Tutti gli hanno detto, con le parole o con i fatti, che l´unica cosa sensata da fare era correre verso la pianura, dove i guadagni erano più rapidi, facili e sicuri, e se non erano guadagni che arrivavano da un lavoro agricolo meglio ancora: un po´ di cemento e via, con un´anima nuova di zecca. Allora, non è tanto che "piove, governo ladro". È che piove dopo decenni di governi avidi di successi e consensi immediati, governi che non hanno costruito benessere, che non si sono fidati di chi avrebbe potuto consigliarli e aiutarli a costruire economie certo più lente, ma più giuste e più stabili di quelle attuali. E mentre queste economie franano noi siamo così lontani dal riconoscere il valore del lavoro agricolo che non sappiamo più nemmeno pronunciarne il nome
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